la nebbia

Agnese scostò la tenda della cucina. Era già la terza volta che si affacciava e, dopo pochi attimi, tornò di nuovo a sedersi sulla sedia. La nebbia, fitta come panna montata, toglieva al suo sguardo le dolci linee delle colline di fronte a casa. Aveva già rinchiuso tutti gli animali, temendo che patissero il freddo più del dovuto. Franco la riprendeva sempre.

“Sei troppo sensibile per essere una contadina ”

Aveva ragione. Si erano sposati nel 1949 dopo una lunga e silenziosa trattativa, come la chiamava lei. Non era amore, ciò che li fece congiungere, fu invece la forte amicizia tra le due famiglie e, dato che nessuno dei due era riuscito a far emergere qualità che potessero portare qualcuno ad amarli, si sposarono tra di loro. L’orologio a cucù suonò otto volte. Era tardi e il buio sceso già da più di tre ore, l’aveva allarmata. Franco rincasava sempre all’imbrunire e, d’inverno, non lo faceva mai dopo le quattro e mezza. Si strofinò le guance per calmarsi, ma non riuscì a placare quella sensazione di terrore che l’aveva assalita. Non tardava mai, Franco. Era un animale più domestico del loro cane, suo marito aveva sempre orari precisi e ben scanditi. Alle otto di sera l’uomo già dormiva, stanco dalle fatiche dei campi. Il minestrone era già freddo di nuovo, l’aveva riscaldato due volte ma di Franco non vide nemmeno l’ombra. Tornò alla finestra e, guardando in fondo alla stradina di ghiaia, le parve di vederlo arrancare col suo passo dinoccolato. Corse verso la porta di casa, l’aprì ma rimase delusa. Era stata solo un’impressione, non c’era nessuno. Rimase lì, sull’uscio, a pregare Dio che non fosse accaduto nulla.

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La nebbia della pianura, in quel periodo dell’anno, accompagnava ogni giorno la loro vita. Pesante e umida, si attaccava ai vestiti e alle ossa. Settant’anni lei e settantacinque lui, erano ormai arrivati ad un punto della loro esistenza in cui i ricordi superavano le aspettative. Agnese pensava spesso a ciò che avrebbe potuto fare, a tutto ciò che aveva già fatto e a quello che avrebbe potuto far meglio. Domenico, il loro unico figlio, aveva intrapreso la vita ecclesiastica, cosa che a Franco non piacque per nulla. Agnese invece ne fu felice, sebbene avesse voluto veder correre nipotini nell’aia. La vita va così, un giorno t’immagini una cosa, l’altro invece ti capita quel che vuol capitare. Avrebbe voluto chiamare Domenico ma sapeva già cosa le avrebbe risposto. Non preoccuparti, lo conosci si sarà fermato da qualche parte, papà è un uomo con la testa sulle spalle. Queste e tante altre frasi fatte per non ammettere che, in realtà, quelle telefonate per lui erano soltanto seccature.

Valdo si mise a grattare sul portone, anche lui stava aspettando il padrone che, quella sera, tardava ad arrivare.

“Buono Valdo, smettila” lo redarguì severa la donna. Avrebbe voluto anche lei grattare quella porta, prendere in mano una valigia e andarsene. L’aveva pensato mille e più volte negli ultimi cinquant’anni e, ogni sera, si prometteva di farlo per davvero, l’indomani. Poi arrivava il mattino e cambiava idea, riservandosi il tempo per pensarci durante il giorno. Aveva passato così gli anni, a preparare con la mente i suoi pochi oggetti da portar via, lasciandoli però al loro posto, decennio dopo decennio. Una volta sola aveva rispolverato la vecchia valigia. Era salita in granaio, l’aveva tirata fuori dal mucchio di oggetti inutili e l’aveva osservata. Era rovinata e mangiata dalla muffa e dal tempo. L’aveva portata giù in casa e ripulita. Il suo cuore nel petto correva veloce e, per qualche attimo, si sentì libera. Bastavano poche cose: due camicie, I suoi grembiuli, le ciabatte e la foto di suo padre. Il resto lo avrebbe abbandonato lì, in quella fattoria troppo grande per le sue poche ambizioni.

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Domenico avrebbe capito, in fondo aveva abbandonato la famiglia molto presto per andare in seminario con Antonio, suo amico d’infanzia. Entrambi i ragazzi frequentavano la chiesa giù in paese e, fin da piccoli, leggevano il vangelo come se fossero stati fumetti colorati.

La donna riemerse dai suoi pensieri. Un rumore da fuori la fece sussultare. Valdo iniziò ad abbaiare tanto che Agnese dovette urlare.

“Ora basta Valdo! “

Si buttò una coperta sulle spalle e uscì. Camminò nel buio, oltre la staccionata. Aveva più paura che freddo ma raccolse coraggio e s’incamminò in ciabatte. La figura di un uomo comparve solo quando già si trovava a pochi metri. Alto almeno due spanne più di lei, capelli lunghi e con un berretto che gli nascondeva la fronte, le rivolse uno sguardo che era tutt’altro che cordiale. Agnese indietreggiò timorosa.

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“Lei chi è? “ chiese con voce stridula. Consapevole di essere sola e che la prima casa abitata si trovava a più di un chilometro di distanza, si ritrovò a temere per la sua vita. L’uomo si strofinò le mani, avanzando con grandi falcate.

Non ebbe il tempo di cercare una via d’uscita. Lo straniero le fu subito addosso e, prima di poter lanciare un urlo, venne presa di forza e trascinata all’interno della casa. Perse i sensi dallo spavento.

Sì risvegliò poco più tardi, dolorante. Aprì gli occhi e con terrore vide davanti a sé il corpo di Valdo, in una posizione innaturale per essere ancora vivo. Si guardò attorno e vide ciò che aveva sempre temuto: i mobili erano stati aperti, cassetti rovesciati, suppellettili buttati a terra. Ladri, pensò. Le sue braccia indolenzite non si muovevano. Si rese conto di essere legata alla sedia e che un grosso pezzo di scotch le copriva la bocca. Il buio della notte entrava dalla porta aperta e la nebbia, ancora alta, la guardava da fuori che, con fierezza, era complice di quel malvivente. L’orologio a cucù batté L’ora. Notte fonda, si disse Agnese. Il silenzio regnava sovrano. Rumori e fruscii provenivano dal piano di sopra. Il farabutto era ancora in casa. Si voltò verso la scala, certa che, se fosse sceso e l’avesse vista vigile, l’avrebbe uccisa, proprio come aveva fatto con il povero Valdo. Decise di accasciare la testa di lato e chiudere gli occhi. Si rinchiuse nei suoi pensieri cupi, immaginando l’arrivo di Franco. Promise a Dio di gettare nella spazzatura la vecchia valigia e di cominciare ad amare suo marito; gli chiese pietà citando suo figlio e il mestiere che aveva scelto. Chiese perdono per tutte le volte che aveva inventato una scusa per non andare a Messa e per quella volta che aveva rubato le quattro lire dal cassetto del padre, nel 1958. Il dolore alle spalle si fece più acuto. La sua età la stava mettendo di fronte alla triste realtà delle cose: non avrebbe potuto difendersi. Inerme, non poté far altro che attendere che il furto terminasse e che, prima o poi, arrivasse qualcuno per slegarla.

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Sentì lo scricchiolio degli scalini. L’uomo stava scendendo. Cercò di mantenere il respiro profondo, come se stesse dormendo. Socchiuse gli occhi e vide che lo sconosciuto si era diretto verso la cucina. Sentì il rumore del coperchio della pentola. Era talmente certo di riuscire a farla franca che si era preso il tempo per placare la fame. Il risucchio che produceva con la lingua confermò che era solo e che la sua intenzione era quella di prendersela con comodo.

“Vecchi” sussurrò con disprezzo “ecco cosa siete. Dei vecchi rinsecchiti”

La risata che ne seguì la ferì più della violazione.

Quando terminò di mangiare, L’uomo liberò un rutto, segno che non solo aveva preso tutto quello che c’era di valore, ma che aveva anche digerito.

Un bruciore agli occhi di Agnese presagì l’arrivo di un pianto che non poteva permettersi. L’avrebbe uccisa, se avesse scoperto che non era morta. Ingoiò saliva silenziosamente e rimase ferma. Dopo un tempo che alla donna parve interminabile, i passi del ladro si diresse verso di lei. Il suo alito che sapeva di cipolla e rape si avvicinò al suo viso.

“Quando ti sveglierai, brutta vecchia, io avrò già venduto tutti i tuoi gioielli. Se ti sveglierai”

Un’altra risata di disprezzo si distese nel silenzio della fattoria. Agnese svenne di nuovo per la troppa pressione su quell’animo fragile.

Due giorni dopo, Agnese e Franco si ritrovarono. La foto scattata li ritraeva sorridenti. Era la prima foto in cui il sorriso faceva da padrone sui loro volti. La prima è l’unica. Sul giornale parlavano di un furto finito male. I corpi di due anziani erano stati trovati a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. La donna, imbavagliata, era deceduta a seguito di un infarto che l’aveva colpita, presumibilmente a seguito delle forti emozioni provate. Il marito invece fu trovato cadavere nel fossato che costeggia la stradina affiancata alla fattoria. Fu il figlio a trovarli, si lesse tra le righe del trafiletto del giornale. Allarmato dal silenzio dei genitori che durava da qualche giorno, aveva preso il primo treno e, una volta raggiunta la casa natale, aveva fatto la macabra scoperta. Non venne mai trovato il colpevole, molto probabilmente un uomo di passaggio che, approfittando della nebbia, aveva colpito indisturbato.

Il giorno del funerale il tempo era terso. La nebbia, complice maledetta di quella disgrazia, pareva si fosse dileguata, assieme al fuggitivo, a goder del bottino rubato.

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