Nel 1975 mio padre, stanco di vedermi bighellonare in strada da mattina a sera, mi ha comunicato che, se non avessi rigato dritto, quell’estate, sarei andato ai campi scuola. Ero un bambino vivace, non amavo star seduto con le mani in mano e preferivo correre piuttosto che starmene seduto sotto il pergolato a leggere libri. Il caldo umido della bassa padana non mi faceva demordere, trovavo sempre occasione per inventarmi qualcosa da fare: spostare gli attrezzi del nonno, rincorrere le galline, saltare i fossi. Mi prendevo pochi attimi di riposo per poi ripartire, carico di energia. Tornavo a casa la sera unto di terra e di stanchezza. Mio padre non sopportava questa mia indole selvaggia e non perdeva occasione per redarguirmi e si divertiva infliggermi punizioni. Al contrario di lui, mia madre era accomodante e giustificava le mie eccessive attività.
“Lascialo fare Mario, avrà tempo un domani a starsene buono. È un bambino, non prendertela troppo”
Quando mia madre si schierava dalla mia parte, mi regalava un occhiolino di complicità che ho sempre letto come un consenso orgoglioso. Mi ha sgridato solo una volta.
Nel mese di luglio, quell’anno, mia nonna mi chiamò a fare la conserva di pomodori con lei. Li raccoglieva con gran lena e portavo le cassette di legna colme di succose verdure, rosse e grosse come mele. Utilizzava un attrezzo appartenuto alla madre, vecchio e arrugginito. Gli ingranaggi scricchiolavano ad ogni giro di manovella ma svolgeva egregiamente il suo dovere.
Iniziavamo al mattino presto, le temperature pomeridiane non ci permettevano di fare grandi sforzi, io stesso, dopo pranzo, mi sdraiavo sul pavimento per trovare ristoro dalla calura postprandiale. Pensavo di aver fatto una scoperta, invece nonna mi raccontò che anche lei, da piccola, si sdraiava sul marmo, alla ricerca di refrigerio. Quel giorno nonna mi chiese se la potevo aiutare e non potei rifiutarmi.
“Sei un bravo ometto, Flavio, forte e volonteroso. Prendi quei vasetti e portali nella dispensa in cantina. Poi torna su e prendi questi altri. So che ce la puoi fare, sei bravo”.
Il mio orgoglio venne ben accarezzato e, facendo un sì deciso con il capo, obbedii. Mi calcai il berretto sulla fronte e presi i primi sei vasetti. Attraversati l’aia, diedi un calcio alla porta di legno ed entrai. Scesi gli scalini e poggiai i barattoli sulla mensola più bassa. Avevo dieci anni, non ero abbastanza alto per raggiungere la terza mensola così, riempiti gli spazi più bassi, mi ritrovai di fronte ad un grosso problema: stipare gli altri vasi di conserva. Presi uno sgabello in legno abbandonato in fondo alla stanza, ricoperto di polvere e di tempo andato. Una volta posizionato al posto corretto, risalii in superficie, attraversai il cortile e tornai da nonna per prendere altra conserva. Fu quando tornai indietro e misi il piede sul secondo scalino che mi resi conto delle pessime condizioni della scala. Con sei vasetti in mano, vacillai e, nonostante avessi provato a mantenere l’equilibrio, caddi a terra. Presi un colpo sul sedere ma il mio più grosso dispiacere non fu il dolore ma la macchia di conserva che si allargava sul pavimento. I vasetti si ruppero in mille pezzi e non c’era modo per recuperare il pomodoro. Il profumo acre si diffuse nella stanza e capii che oramai il danno era fatto. Cercai di rialzarmi, facendo presa sull’armadio con la speranza di poter pulire prima di essere scoperto. Sul come spiegare l’accaduto, ci avrei pensato più tardi. Purtroppo il destino mi fu avverso e, in un attimo, la mensola su cui mi aggrappai, cadde su quella sottostante. In pochi attimi avevo distrutto il lavoro di settimane. Il raccolto, il lavoro: tutto era andato perduto. Non vedendomi arrivare, nonna mi venne a cercare. Claudicante e munita di un’accentuata gobba, fece fatica a scendere e, quando vide cos’era accaduto, si coprì il viso disperata. Mia madre accorse, richiamata dal frastuono. Mi sentii morire. Avevo perso la fiducia di tutti e mi parve già di sentire la voce di mio padre. Aveva ragione lui, pensai. Ero un delinquente.
La sera mio padre rientrò dai campi. Mogio mogio mi sedetti a tavola, silenzioso. Sapevo che avrebbero raccontato l’accaduto a mio padre e mi aspettavo le sue grida. Mangiammo la pasta col sugo e, allo schioccare della lingua di mio padre, avvertii che era giunto il momento di parlarne. Lasciai il compito a mia madre, speranzoso. Forse, mi dissi, mi avrebbe difeso ancora una volta. Prese invece parola mia nonna che, seduta al mio fianco, mi poggiò una mano sul ginocchio da sotto il tavolo.
“Oggi abbiamo provato a fare la conserva” dichiarò. Mio padre non alzò lo sguardo dal piatto, troppo coinvolto dal sapore del cibo.
“Ah si? E com’è venuta?” si informò lui sorseggiando il suo bicchiere di vino rosso.
“Male” rispose nonna.
Le lacrime che cercavo di trattenere invasero i miei occhi, più cercavo di resistere e più si facevano spazio. Presto sarebbero scese dal mio viso ma non volevo farlo. Ero un ometto e non è da uomini piangere, me lo diceva sempre anche il nonno.
“Male?” chiese curioso mio padre.
Mi alzai in piedi di fianco alla sedia, pronto a confessare. Con mio stupore, invece, nonna raccontò una storia diversa.
“Purtroppo sono troppo vecchia e dovrei dirlo a me stessa. Sono scivolata e mi sono aggrappata alla mensola. È andato perso tutto”
Mio padre alzò gli occhi e mi guardò con sguardo severo.
“E tu perché non hai aiutato tua nonna? Non era compito tuo? Eri in giro a campi a far malanni? “
Abbassai gli occhi e non parlai. Aveva ragione lui, io avrei dovuto esserci e la storia, seppur raccontata per aiutarmi, si ritorse contro di me. Balbettai parole confuse che non fecero altro che confermare la sua teoria. Mi ordinò di andare a letto, senza diritto di replica.
Una settimana dopo salii sull’autobus, diretto a Fiera di Primiero. Nonna mi abbracciò forte e, sussurrando piano al mio orecchio, mi rassicurò.
“Ho fatto del mio meglio, ma vedrai che ti divertirai”
L’abbracciai, in fondo era giusto che io, in qualche modo, pagassi per i miei errori.
Rientrai due mesi dopo e, appena scesi dall’autobus, vidi mio padre che mi aspettava. Mi misi di fronte a lui e, dopo un momento di silenzio, mi abbracciò. Eravamo felici di vederci. Ci incamminiamo verso casa, ognuno perso nei propri pensieri.
Un decennio più tardi, nello stesso periodo, scesi da un autobus, alla medesima fermata. Trovai ad aspettarmi mio padre, con lo stesso cappello in testa, il suo viso duro, solo un po’ più rassegnato. La sua schiena si stava piegando al tempo e le sue spalle, una volta possenti, si stavano inarcando. Gli sorrisi ma lui, coerente con sé stesso, si rivolse a me con la sua solita severità.
“Tagliati quei capelli, cosa fai, ti conci come una femmina?” poi però sorrise e mi abbracciò. Il periodo lontano da casa era finito, terminate le scuole, ero tornato, pronto a prendere in mano il suo lavoro. Avevo conosciuto una ragazza, Maria che ben presto, sarebbe arrivata con la sua valigia, pronta ad affrontare con me la nuova vita nella cascina. Nonostante la mia lontananza, nel ultimi sei anni avevo maturato il desiderio di tornare nella mia lenta, monotona, calma terra e prendere in mano le attività di famiglia. La città in cui avevo vissuto, caotica e frenetica, non faceva per me e Maria, che arrivava anche lei da una vita semplice e rurale, aveva accettato con entusiasmo la vita che avremo condotto nella pianura padana.
Nonna morì una sera di novembre. Frequentavo il terzo anno della scuola agraria e, venuto a conoscenza dell’aggravarsi della sua salute, riuscii a rientrare per darle un ultimo saluto.
“Sii sempre quel bambino che correva nei campi, Flavio. Tuo padre era come te, non lo ammetterà mai ma è molto orgoglioso di te. Torna qui, a fare la conserva. Sii fiero delle tue origini, non diventare ciò che non sei”.
Una volta rientrato in città, riflettei molto e capii che aveva ragione. La vita nei campi è il mio posto nel mondo. Il sudore per la mia terra è ciò che hanno fatto di me l’uomo che sono e, questa terra, sarà la casa dei miei figli e i figli dei miei figli. Non è rassegnazione, è semplicemente il posto giusto.