il supermercato

Chi mi conosce sa cosa provo quando sento la parola “supermercato”. Non chiedetemi il motivo, ma quando lo sento nominare, dentro di me sentimenti poco piacevoli fanno breccia nel mio cuore. Ho provato ad analizzare questo malessere ma non riesco a trovarne il motivo. Non ho avuto traumi o cattive esperienze in quel luogo, eppure non so perché, quando si parla di fare la spesa, io mi defilo con sagace destrezza.

“Vai tu, io faccio una lavatrice”

“Non ho tempo, puoi andare tu amore mio? “

“Mamma se vai al supermercato mi puoi prendere uova, pasta, pesto, latte, burro poi ti do i soldi? “

Eppure, direte voi, è il luogo dove si trova una delle cose fondamentali per la nostra sopravvivenza :il cibo. Sfilare lungo quelle corse mi disturba. Centinaia, migliaia di scatole, buste, confezioni di cibo mi guardano ammiccanti.

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“Prendimi”, sembra che vogliano dire. Ogni prodotto riporta diciture ammiccanti: il migliore della Val Pusteria, da anni il miglior caciocavallo d’Italia. Il tonno che si taglia con un grissino. Chilometri di morbidezza. Il profumo di pulito. La pausa che ti meriti. Bombardamenti di marketing che con un gran giro di parole ti dicono: prendi queste scatolette di tonno, così condisci quel triste piatto di pasta in bianco e ti senti uno chef. Il profumo di pulito lo puoi sentire solo se lavi i pavimenti quindi, bionda, prendi sto litro di detersivo e armati di olio di gomito. C’è chi entra al supermercato e passeggia, col suo bel carrellino davanti e passa tra i banchi frigo con pignola attenzione. Una sera sono entrata di corsa per comprare un litro di latte per la colazione del giorno seguente. Di fronte a me, stazionava una signora che con occhiali infilzati sul naso, Leggeva l’etichetta di ogni singola scatola. Valori nutrizionali, provenienza, immagine sul tetra pack. Io tamburellavo impaziente sul carrellino, visibilmente impaziente ma incapace di dirle di sbrigarsi. Credo cercasse il nome delle mucche dalle quali avevano ricavato il latte.

La cosa che più mi disturba al supermercato sono gli altri esseri umani che barcollando tra gli scaffali.

C’è quello che io chiamo parcheggiatore abusivo. Il parcheggiatore abusivo è colui che, privo di sensibilità, staziona il carrello proprio davanti al prodotto che ti serve. Tu stai lì, con educazione, aspetti che lui recuperi il pacco di tè. Resti buono, poi però ti rendi conto che non sa quale tè prendere ed effettivamente un po’ lo comprendi: tè verde, tè drenante, tè nero, tè concentrato, tè con vaniglia, tè con arancia. Suggerisco di creare il tè agli aromi di pollo fritto, potrebbe nascere una buona combinazione di gusto. Tu sei ancora lì che aspetti e vorresti spostare il carrello del tuo avversario, stanca ormai di aspettare. Chiedi scusa e distogli il malcapitato dalla concentrazione il quale ti lancia uno sguardo severo: l’hai distratto dal ragionamento, rendendo vano il tempo da lui speso negli ultimi dieci minuti. Ringrazi, ti scusi, prendi il tè che sa solo di tè e ti defili salutando.

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Io faccio parte del gruppo degli annusatori. Si, lo so, non si fa, ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. Quando devo acquistare un detersivo per pavimenti, compio un gesto alla stregua di un reato. Per prima cosa controllo che non ci siano altre persone in quel reparto poi, verificato di non avere pubblico, passo all’azione successiva. Leggo le etichette: violette, pino, oceano. Oceano? Che profumo può mai avere un detersivo per pavimenti che sa di oceano? Immagino la casa invasa dall’odore di acqua salata e rabbrividisco, tuttavia sono curiosa. Prendo in mano il barattolo, mi guardo a destra, poi a sinistra. Controllo in alto se ci sono telecamere e, una volta verificato che non ci sia nessun testimone, svito il tappo e annuso l’oceano. No, non sa di salsedine, sa di qualcosa di strano e indefinibile. Lo ripongo al suo posto. Vado sul sicuro e prendo quello che sa di fiori. Ha un buon prezzo e mi fa vivere nell’illusione che possa apparire un roseto tra la lavatrice e la vasca da bagno. Lo so che lo fai anche tu, è una cosa a cui non ci si può sottrarre. È come con i fonzie, se non ti lecchi le dita godi solo la metà.

Tocca poi agli assorbenti. Tasto dolente e imbarazzante ma lo è di più per un uomo a cui viene commissionato l’acquisto da parte della moglie, fidanzata o figlia.

“Prendi quelli viola, la confezione da diciotto, non puoi sbagliare”

No, non puoi sbagliare. Se sei una donna, hai le mestruazioni e frequenti il negozio da almeno due anni. Per un uomo, è diverso. Provo ad immedesimarsi in un povero maschio di un’età compresa tra i venticinque e i cinquant’anni di fronte alla parete piena di un articolo mai utilizzato e che mai sarà oggetto di suo consumo. Con ali, senza ali, interni, esterni, per perizomi e poi da notte, da giorno, regular, maxy, mini. Provate a pensare ad un povero Cristo davanti a quell’immensa varietà. Più che uno scaffale, per lui è un muro del pianto. Stai ridendo? Sei una brutta persona. Si, la maggior parte delle volte questi maschi adulti commettono errori e le donne hanno pure il coraggio di arrabbiarsi.

“Come puoi aver sbagliato? Ti avevo detto quelli sottili in cotone con ali regolari!”

Fatevi un esame di coscienza, capirete di aver fatto violenza a vostro marito.

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Esiste poi un grosso mistero. La ricerca di quello che io chiamo il Santo Graal. Quel cibo che non può mancare nel nostro frigorifero, eppure è il più difficile da scovare. Centinaia e centinaia di metri quadrati di supermercato ma noi tutti, compresi i veterani, fanno difficoltà a reperire: le uova. Sono vicino ai latticini? No. Allora vicino allo zucchero. Potrebbe essere. Basterebbe sapere in quale reparto viene messo lo zucchero. Quando il supermercato è conosciuto non è difficile ricordare dove si trova la roba, se invece è un negozio dove non si ha mai messo piede, le cose si complicano terribilmente. Si finisce a chiedere ai commessi, cosa paragonabile a chi chiede indicazioni a chi passeggia sul ciglio della strada. Da pivelli.

Quando finalmente hai completato il gravoso compito, ti avvicini alle casse. Solitamente si fa una stima del tempo che ci vuole, calcolando il volume degli articoli nei carrelli precedenti al tuo. Sbuffare nell’attesa del proprio turno è pratica parecchio diffusa finché la cassiera decide di chiamare col microfono un collega. In quel momento, tutti gli umani in fila si guardano attorno, nella speranza di vedere chi arriva ma soprattutto quale sia la cassa di prossima apertura. E’ lì in quel preciso istante che le ruote dei carrelli fumando e cigolando, si dirigono verso la cassa vuota. Accade quindi che la scelta giusta la fanno quelli che rimangono al loro posto, troppo pigri per sfidare gli avversari o, semplicemente, hanno già avuto a che fare con quel fenomeno.

Capita che si vada al supermercato per comprare un solo articolo. Se però questo è un pacco dei sopra citati assorbenti, le cose si complicano. Si sceglie così di acquistare almeno tre cose, anche quattro per mimetizzare l’imbarazzo. Assorbenti, carta igienica, cibo per gatti e caffè. Si lo so, non che così vada molto meglio, ma si fa quel che si può. Capita a tutti – e non dire che non è vero – di guardare con curiosità quel che hanno messo sul rullo gli altri clienti. E’ un gioco divertente, riusciamo a vedere i progetti per la sera di chi sta in fila come noi. Sei birre con patatine significa serata film sul divano. Filetto di tonno, melanzane, fragole e champagne è la premonizione di una serata romantica. Assorbenti carta igienica, cibo per gatti e caffè… niente, lasciamo stare. Una volta il signore in fila prima di me aveva venti saponette e una scatola di fagioli. Sono una donna molto fantasiosa ma ammetto di non averci capito molto.

Una volta pagato, finalmente si vede la luce. Potete capire bene il motivo per cui io odio andare a fare la spesa. Hanno provato a farmi cambiare idea ma ancora non c’è stato nessuno che sua stato in grado di farlo. Provateci voi, magari ci riuscirete.

Forse.

la nebbia

Agnese scostò la tenda della cucina. Era già la terza volta che si affacciava e, dopo pochi attimi, tornò di nuovo a sedersi sulla sedia. La nebbia, fitta come panna montata, toglieva al suo sguardo le dolci linee delle colline di fronte a casa. Aveva già rinchiuso tutti gli animali, temendo che patissero il freddo più del dovuto. Franco la riprendeva sempre.

“Sei troppo sensibile per essere una contadina ”

Aveva ragione. Si erano sposati nel 1949 dopo una lunga e silenziosa trattativa, come la chiamava lei. Non era amore, ciò che li fece congiungere, fu invece la forte amicizia tra le due famiglie e, dato che nessuno dei due era riuscito a far emergere qualità che potessero portare qualcuno ad amarli, si sposarono tra di loro. L’orologio a cucù suonò otto volte. Era tardi e il buio sceso già da più di tre ore, l’aveva allarmata. Franco rincasava sempre all’imbrunire e, d’inverno, non lo faceva mai dopo le quattro e mezza. Si strofinò le guance per calmarsi, ma non riuscì a placare quella sensazione di terrore che l’aveva assalita. Non tardava mai, Franco. Era un animale più domestico del loro cane, suo marito aveva sempre orari precisi e ben scanditi. Alle otto di sera l’uomo già dormiva, stanco dalle fatiche dei campi. Il minestrone era già freddo di nuovo, l’aveva riscaldato due volte ma di Franco non vide nemmeno l’ombra. Tornò alla finestra e, guardando in fondo alla stradina di ghiaia, le parve di vederlo arrancare col suo passo dinoccolato. Corse verso la porta di casa, l’aprì ma rimase delusa. Era stata solo un’impressione, non c’era nessuno. Rimase lì, sull’uscio, a pregare Dio che non fosse accaduto nulla.

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La nebbia della pianura, in quel periodo dell’anno, accompagnava ogni giorno la loro vita. Pesante e umida, si attaccava ai vestiti e alle ossa. Settant’anni lei e settantacinque lui, erano ormai arrivati ad un punto della loro esistenza in cui i ricordi superavano le aspettative. Agnese pensava spesso a ciò che avrebbe potuto fare, a tutto ciò che aveva già fatto e a quello che avrebbe potuto far meglio. Domenico, il loro unico figlio, aveva intrapreso la vita ecclesiastica, cosa che a Franco non piacque per nulla. Agnese invece ne fu felice, sebbene avesse voluto veder correre nipotini nell’aia. La vita va così, un giorno t’immagini una cosa, l’altro invece ti capita quel che vuol capitare. Avrebbe voluto chiamare Domenico ma sapeva già cosa le avrebbe risposto. Non preoccuparti, lo conosci si sarà fermato da qualche parte, papà è un uomo con la testa sulle spalle. Queste e tante altre frasi fatte per non ammettere che, in realtà, quelle telefonate per lui erano soltanto seccature.

Valdo si mise a grattare sul portone, anche lui stava aspettando il padrone che, quella sera, tardava ad arrivare.

“Buono Valdo, smettila” lo redarguì severa la donna. Avrebbe voluto anche lei grattare quella porta, prendere in mano una valigia e andarsene. L’aveva pensato mille e più volte negli ultimi cinquant’anni e, ogni sera, si prometteva di farlo per davvero, l’indomani. Poi arrivava il mattino e cambiava idea, riservandosi il tempo per pensarci durante il giorno. Aveva passato così gli anni, a preparare con la mente i suoi pochi oggetti da portar via, lasciandoli però al loro posto, decennio dopo decennio. Una volta sola aveva rispolverato la vecchia valigia. Era salita in granaio, l’aveva tirata fuori dal mucchio di oggetti inutili e l’aveva osservata. Era rovinata e mangiata dalla muffa e dal tempo. L’aveva portata giù in casa e ripulita. Il suo cuore nel petto correva veloce e, per qualche attimo, si sentì libera. Bastavano poche cose: due camicie, I suoi grembiuli, le ciabatte e la foto di suo padre. Il resto lo avrebbe abbandonato lì, in quella fattoria troppo grande per le sue poche ambizioni.

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Domenico avrebbe capito, in fondo aveva abbandonato la famiglia molto presto per andare in seminario con Antonio, suo amico d’infanzia. Entrambi i ragazzi frequentavano la chiesa giù in paese e, fin da piccoli, leggevano il vangelo come se fossero stati fumetti colorati.

La donna riemerse dai suoi pensieri. Un rumore da fuori la fece sussultare. Valdo iniziò ad abbaiare tanto che Agnese dovette urlare.

“Ora basta Valdo! “

Si buttò una coperta sulle spalle e uscì. Camminò nel buio, oltre la staccionata. Aveva più paura che freddo ma raccolse coraggio e s’incamminò in ciabatte. La figura di un uomo comparve solo quando già si trovava a pochi metri. Alto almeno due spanne più di lei, capelli lunghi e con un berretto che gli nascondeva la fronte, le rivolse uno sguardo che era tutt’altro che cordiale. Agnese indietreggiò timorosa.

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“Lei chi è? “ chiese con voce stridula. Consapevole di essere sola e che la prima casa abitata si trovava a più di un chilometro di distanza, si ritrovò a temere per la sua vita. L’uomo si strofinò le mani, avanzando con grandi falcate.

Non ebbe il tempo di cercare una via d’uscita. Lo straniero le fu subito addosso e, prima di poter lanciare un urlo, venne presa di forza e trascinata all’interno della casa. Perse i sensi dallo spavento.

Sì risvegliò poco più tardi, dolorante. Aprì gli occhi e con terrore vide davanti a sé il corpo di Valdo, in una posizione innaturale per essere ancora vivo. Si guardò attorno e vide ciò che aveva sempre temuto: i mobili erano stati aperti, cassetti rovesciati, suppellettili buttati a terra. Ladri, pensò. Le sue braccia indolenzite non si muovevano. Si rese conto di essere legata alla sedia e che un grosso pezzo di scotch le copriva la bocca. Il buio della notte entrava dalla porta aperta e la nebbia, ancora alta, la guardava da fuori che, con fierezza, era complice di quel malvivente. L’orologio a cucù batté L’ora. Notte fonda, si disse Agnese. Il silenzio regnava sovrano. Rumori e fruscii provenivano dal piano di sopra. Il farabutto era ancora in casa. Si voltò verso la scala, certa che, se fosse sceso e l’avesse vista vigile, l’avrebbe uccisa, proprio come aveva fatto con il povero Valdo. Decise di accasciare la testa di lato e chiudere gli occhi. Si rinchiuse nei suoi pensieri cupi, immaginando l’arrivo di Franco. Promise a Dio di gettare nella spazzatura la vecchia valigia e di cominciare ad amare suo marito; gli chiese pietà citando suo figlio e il mestiere che aveva scelto. Chiese perdono per tutte le volte che aveva inventato una scusa per non andare a Messa e per quella volta che aveva rubato le quattro lire dal cassetto del padre, nel 1958. Il dolore alle spalle si fece più acuto. La sua età la stava mettendo di fronte alla triste realtà delle cose: non avrebbe potuto difendersi. Inerme, non poté far altro che attendere che il furto terminasse e che, prima o poi, arrivasse qualcuno per slegarla.

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Sentì lo scricchiolio degli scalini. L’uomo stava scendendo. Cercò di mantenere il respiro profondo, come se stesse dormendo. Socchiuse gli occhi e vide che lo sconosciuto si era diretto verso la cucina. Sentì il rumore del coperchio della pentola. Era talmente certo di riuscire a farla franca che si era preso il tempo per placare la fame. Il risucchio che produceva con la lingua confermò che era solo e che la sua intenzione era quella di prendersela con comodo.

“Vecchi” sussurrò con disprezzo “ecco cosa siete. Dei vecchi rinsecchiti”

La risata che ne seguì la ferì più della violazione.

Quando terminò di mangiare, L’uomo liberò un rutto, segno che non solo aveva preso tutto quello che c’era di valore, ma che aveva anche digerito.

Un bruciore agli occhi di Agnese presagì l’arrivo di un pianto che non poteva permettersi. L’avrebbe uccisa, se avesse scoperto che non era morta. Ingoiò saliva silenziosamente e rimase ferma. Dopo un tempo che alla donna parve interminabile, i passi del ladro si diresse verso di lei. Il suo alito che sapeva di cipolla e rape si avvicinò al suo viso.

“Quando ti sveglierai, brutta vecchia, io avrò già venduto tutti i tuoi gioielli. Se ti sveglierai”

Un’altra risata di disprezzo si distese nel silenzio della fattoria. Agnese svenne di nuovo per la troppa pressione su quell’animo fragile.

Due giorni dopo, Agnese e Franco si ritrovarono. La foto scattata li ritraeva sorridenti. Era la prima foto in cui il sorriso faceva da padrone sui loro volti. La prima è l’unica. Sul giornale parlavano di un furto finito male. I corpi di due anziani erano stati trovati a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. La donna, imbavagliata, era deceduta a seguito di un infarto che l’aveva colpita, presumibilmente a seguito delle forti emozioni provate. Il marito invece fu trovato cadavere nel fossato che costeggia la stradina affiancata alla fattoria. Fu il figlio a trovarli, si lesse tra le righe del trafiletto del giornale. Allarmato dal silenzio dei genitori che durava da qualche giorno, aveva preso il primo treno e, una volta raggiunta la casa natale, aveva fatto la macabra scoperta. Non venne mai trovato il colpevole, molto probabilmente un uomo di passaggio che, approfittando della nebbia, aveva colpito indisturbato.

Il giorno del funerale il tempo era terso. La nebbia, complice maledetta di quella disgrazia, pareva si fosse dileguata, assieme al fuggitivo, a goder del bottino rubato.

le poltrone

I paeselli di provincia sono sempre stati piccoli mondi a parte. Un campanile, una chiesa, una piazza. Nel microcosmo vivono poche anime, tutte concentrate in quelle quattro strade. Sono nata anch’io in uno di questi e, sebbene la mia vita abbia poi preso una strada diversa, ho vissuto gran parte dei miei anni in una piccola realtà. Il droghiere, la macelleria, il giornalaio. Conoscevo tutti e tutti conoscevano me.

Trissino è adagiato sul dorso di una collina, e per una buona parte si arrampica lungo di essa: case che sfilano ai lati di una salita che porta alla parte alta, nella quale si erge la chiesa più vecchia, il cimitero e la villa del conte Marzotto.

Giù, in paese, c’era un edificio di proprietà del clero, il cinema. Nella sala, ragazzini e adulti si recavano per vedere i film appena usciti. Fin dagli anni cinquanta, orde di ragazzini son passati su quelle sedie, si son seduti ed hanno guardato pellicole indimenticabili. Io stessa, da piccola, passavo ore a guardare i film proiettati sullo schermo del cinema. L’odore dell’edificio sapeva di umido e di legno, le poltrone si aprivano e chiudevano come grandi fauci feline e, ogni qualvolta ci si alzava o ci si spostava, quelle bocche si chiudevano minacciose. Ci ho pianto, riso, mi sono commossa su quei sedili rosso fiammanti e, nonostante la loro dubbia comodità, sono un ricordo d’infanzia da cui non sono mai riuscita a distogliere il pensiero.

foto mbnews

Cinque anni fa, lontana dal paesello, sono venuta a conoscenza della terribile notizia: il cinema sarebbe stato raso al suolo. Erano ormai anni che le fatiscenti porte non venivano varcate; sedie, bagno e palco non vedevano occhi umani da parecchio tempo; artisti e aspiranti tali non calcavano il palcoscenico da diversi lustri, tuttavia saper che ben preso il suo posto sarebbe stato occupato da una nuova area commerciale mi ha lasciato un amaro senso di desolazione.

Quando iniziarono i lavori, venni a conoscenza della vendita di oggetti stipati all’interno della sala così, con il passaparola tipicamente provinciale, presi appuntamento con il custode per andare a visionare i cimeli stipati là dentro.

Varcai il portone con nostalgia. Le misure delle porte mi sembravano ristrette, sebbene si sa, quando si è piccoli, tutto pare più grande. I vetri della biglietteria al lato dell’ingresso erano opachi di polvere e la scala che portava alla galleria presagiva un difficile percorso poco sicuro. I tendoni, rosso carminio, erano mutati in un tessuto rovinato, male odorante, strappato in più lembi. Mi sembrava che anche la mia vita avesse subìto lo stesso mutamento e che lo splendore dei momenti passati non era che un triste ricordo.

Il custode ci fece strada e, le poltrone, sistemate tutte in un angolo buio, parevano animali pronti al macello. La polvere non aveva risparmiato nemmeno loro e il materiale che le sosteneva si era arrugginito e scrostato.

“Venite” ci disse l’uomo “venite che vi faccio vedere la sala principale”

Varcai il portone e, in un attimo, mi ritrovai in quello che di fatto era diventato l’edificio: un grosso deposito di mobili, libri e suppellettili di varia natura. Ci spiegò che molte case di paese erano state sgomberare dal mobilio e che, non sapendo dove metterle, il parroco aveva deciso di stivarli lì per comodità.

“Vi lascio guardare, se volete prendere qualcosa, ditemelo che se ve lo portate via ci fate pure un favore”

M’inoltrai tra i sentieri che si erano creati all’interno del cinema. Come in un labirinto, cercavo curiosa qualcosa da portarmi a casa. Decisi di infilare nel furgoncino un vecchio specchio di legno con i riccioli alle estremità. Nella casa nuova mi mancava qualcosa che riflettesse la mia immagine ma, fino a quel momento, non ne avevo sentito la necessità.

“Prendo questo” dichiarai con convinzione. Appoggiai poi le mani su di una poltrona ma il tessuto era troppo logoro per pensare di passarci le serate a leggere un libro. L’uomo si è caricato in spalla il grande specchio, contento che si sarebbe liberato un po’ di spazio. Uscendo, ho buttato nuovamente lo sguardo sulle poltrone e, in quel momento, decisi di portarmi a casa un pezzo della mia infanzia.

“Porto via anche un paio di poltroncine” dichiarai solennemente. Il custode mi regalò un sorriso. In fondo, credo abbia letto la malinconia nel mio sguardo.

“Quali vuole? “

Camminai tra le poltrone che, a guardarle, parevano tutte uguali. Mi chiesi su quali ancora non mi fossi seduta e quale di esse invece era quella in cui avevo mangiato le patatine, trent’anni prima. Indicai con la mano le prescelte, le caricammo nel piccolo furgoncino e salutai, grata dell’ultimo saluto che mi aveva concesso di dare a quel luogo.

foto foursquare

Prima di tornare a casa, passai da mia madre. Scese le scale e mi chiese se potessi farle vedere il bottino. Aprii il portellone del furgoncino e gliele mostrai. Lo sguardo di mia madre s’intristì. Non dicemmo nulla ma entrambe stavamo piangendo la fine di un pezzo della nostra vita.

Marco ed io portammo poi il bottino in casa e, per qualche tempo, lasciammo le poltrone in una stanza finché non avremmo fatto il lavoro di restauro.

I giorni passavano, passavano le settimane, i mesi, gli anni e quelle due poltroncine non venivano spostate. Erano andate dimenticate, proprio come accadde nel vecchio cinema di paese. La scorsa primavera passai di fianco a quel cimelio e mi inginocchiai a terra, per guardarle. Dedicai loro lo stesso pensiero di qualche anno prima. Siete la mia infanzia, siete lì, addossate ad un muro lontane da dove avete servito centinaia di trissinesi, dimenticate e in disuso.

Con l’arrivo del regalo del mio compleanno, il loro destino è cambiato nuovamente. Il posto da loro occupato mi sarebbe servito per un vecchio armadio, anche lui appartenuto ad altre vite che, con l’occasione della ricorrenza, Marco decise di regalarmi.

“Dobbiamo far sparire quelle due là” sentenziò con decisione. Aveva ragione, occupavano spazio inutilmente, così le abbiamo caricate di peso e portate nello scantinato, chiuse a chiave nel buio e dimenticate ancora una volta. Passò l’estate e anche l’autunno e non ci pensai più.

foto clrapulaclub

Il cinque di dicembre seguente a Vicenza c’è stata un’alluvione. Il caldo inusuale di quei giorni, ha fatto sciogliere le nevi in montagna e, i ghiacci, trasformati in acqua, sono scesi a valle assieme a detriti, fango e rame di piante sradicare. Siamo scesi a controllare i danni e, fermi alla bocca delle scale, abbiamo guardato giù. Lo scantinato era allagato e, con esso, tutti gli oggetti in esso stipati si stavano rovinando. Solo qualche giorno dopo siamo riusciti ad accedere al locale e, aperta la porta che ci conduceva ai nostri averi, abbiamo guardato nuovamente le due poltrone, rovinate ancor di più.

Sono tornata in casa, silenziosa. La triste storia delle poltrone non aveva fine, bistrattate prima, umiliate poi. Il loro destino era ormai segnato per sempre e, nel turbinio dei miei pensieri, mi chiesi se succede sempre così. Si finisce inesorabilmente a diventare qualcosa di inutile. Che tu sia un oggetto oppure un essere umano, quella è la fine che ti spetta. Non riuscivo a darmi pace finché non decisi di scendere giù, a verificare se i danni fossero davvero irreparabili.

Non ho ancora deciso cosa fare di loro due, sono ancora laggiù, da sole, ad attendere di accogliere umani a cui dare ristoro. Potrei portarle in discarica anche oggi, ma c’è una piccola voce che mi sale dal cuore che mi sussurra di aspettare e che, sebbene sia oramai impossibile farle risplendere, il momento di buttarle non è ancora arrivato. Penso che le terrò ancora con me, almeno per ora. Non sono ancora pronta a separarmi dalla mia infanzia, dal profumo del cinema e il ricordo dei tempi passati.

LA MURETTA

Da piccola passavo le estati in paese. Non avevo case di villeggiatura, non mi trasferivo da parenti lontani e non avevo grossi impegni se non completare i compiti assegnati dalle maestre. Come tutti i bambini, trascorrevo le giornate giù in cortile. Una volta era diverso, le madri aprivano il portone di casa, spingevano in strada i figli e si raccomandavano solo di una cosa: rientrare per pranzo. Il pomeriggio la cosa si ripeteva, spalancavano la porta, spingevano fuori i figli e via, fuori fino a sera. Si raccomandavano di non allontanarsi troppo e di stare attenti alle macchine, poi per il resto, potevi fare ciò che volevi. Potevi andare al fiume e immergerti nel fango fino al collo, lanciare sassi, sporcare i vestiti. Non importava come tornavi, bastava rientrare quando il piatto era sul tavolo.

Gli amici erano sempre gli stessi, figli di altre madri che si comportavano esattamente come la tua. Sparire dalla loro vista era un sollievo e, se ti facevi male, ben ti stava, la volta dopo saresti stato più attento. Niente lacrime e, se piangevi, ti arrivava un manrovescio. Ti dicevano di smettere di frignare e che, se era successo, era tutta colpa tua. Mia madre si preoccupava solo nel caso in cui, al suo richiamo, non rispondevo. Come i generali, le madri agivano tutte nel medesimo modo: si affacciavano al balcone, prendevano fiato e liberavano il loro urlo. Elena! Pamela! Federica! Luca! Pareva facessero a gara su chi chiamava il figlio con più energia.

Noi eravamo dei piccoli teppisti ma anche questa era cosa diffusa. Ci si imbucava ovunque, ci si nascondeva nelle taverne ad aprir cassetti, si saliva sulle mure e ci si buttava giù per gli scivoli con biciclette senza freni o con i pattini a rotelle. Ogni giornata era incauta e spericolata. A mezzogiorno rientravamo a casa, stanchi di sentire le minacce dei nostri genitori e per un po’ in strada regnava la tranquillità. Dopo pranzo mi affacciavo alla finestra e, se vedevo uno dei miei amici seduto sopra, era il segnale. Entro pochi minuti sarebbero arrivati tutti, richiamati dall’istinto e non da telefonate. Le ginocchia si sbucciavano, i vestiti si strappavano e le suole delle scarpe si aprivano come bocche di animali affamati. La sera ci si ritirava all’imbrunire, stanchi morti e tutti sudati. Ci sedevamo su una mura che avevamo ribattezzato la muretta, anche se altro non era che la gabbia cementata dei contatori dell’acqua di un grosso condominio. Li sopra ci salivamo quando la stanchezza ci assaliva. Lasciavamo dondolare i piedi stanchi, sospesi nel vuoto. Non era molto alta ma a dieci anni tutto è più grande. Il sole cocente delle giornate estive caricava la mura di calore e la sera, quando ci sdraiavamo sopra, ci scottavamo le cosce. Abbiamo parlato, giocato, bisticciato, mostrato agli amici i giochi nuovi. Condividevamo merende e caramelle, titoli di canzoni e nomi di calciatori.

Quella mura era il nostro tappeto magico, un mondo sospeso tra terra e cielo, dove nessun adulto fu mai in grado di capire quanto importante fosse per noi. Quando crescemmo, imparammo a condividere il nostro posto con altri ragazzi. Certo, quello era nostro e per essere accolti bisognava avere l’approvazione di tutti. Ragazzi da paesi limitrofi arrivavano con i motorini. Due, cinque, dieci ragazzetti di quindici anni che con marmitte rombanti fiondavano a manetta dalla curva e frenavano alzando polveroni. Lì sopra sono nati i primi amori, quelli corrisposti ma non consumati, quelli segnati da scontri con rivali, quelli che ti mettevi assieme con le richieste su bigliettini. Vuoi essere la mia ragazza? Croce sì, croce no. Le nostre estati erano così. Lunghe, umide ma speciali nella loro semplicità. Ricordo il 1991, quando arrivò Michele e diede la notizia della tragedia. Freddie era morto. Lacrime copiose inondarono i nostri occhi increduli. A tredici anni sapere che il tuo idolo, quello di cui cantavi le melodie ad alta voce e di cui scimmiottavi i gesti era stato stroncato da una malattia incurabile è stato devastante. Ci siamo disperati, abbiamo calciato con violenza i sassi, battuto i piedi proprio su quella mura. Ah, se potesse parlare, quante ne racconterebbe, la muretta!

Il tempo poi è passato, le scuole superiori che iniziammo a frequentare si trovavano in altri paesi, alcuni di noi andarono a studiare perfino giù a Vicenza che, per noi giovani, era lontanissima. Da dieci diventammo otto, da otto quattro e, in breve tempo, la mura venne abbandonata per sempre. Il pezzo di giardino che si trovava di fronte al nostro luogo non venne più sistemato. Le erbacce crescevano su, sempre più su, fino a raggiungere il metro di altezza, quasi quanto il nostro muro. Tolsero l’erba e ne fecero terreno brullo e tutto svanì. Arrivò la maturità, alcuni traslocarono, altri scomparvero per sempre, uno di noi morì poco più che ventenne. Ci siamo persi di vista, ognuno a rincorrere i propri sogni, figli, amanti. Siamo tutti più che quarantenni, quasi estranei. Ci si saluta ancora, quando ci si trova e se si ha un po’ di tempo, ci si scambiano le solite formalità : come stai, tua madre tutto bene, salutami tuo fratello, come cresce tuo figlio, ciao a presto. Quando vado a trovare mia madre, mi affaccio alla finestra e guardo laggiù, in fondo alla via e la vedo, in lontananza. La nostra muretta ha cavalcato i decenni sempre là, immobile e solitaria. I bambini che vivono ora nella via non hanno mai passato il proprio tempo con lei ma, sotto sotto, ne sono felice: quello era il nostro posto speciale e tale è rimasto. Ora i bambini sono chiusi in casa, davanti a schermi di computer o di telefonini. Le loro ginocchia non sanguinano, le suole delle loro scarpe sono perfette e nessun pantalone si consuma sulle ginocchia. I tempi cambiano, le vite si evolvono ma, forse, quella magia mancherà nei loro ricordi di vecchiaia. Un posto è speciale quando la memoria ne conserva la magia e, almeno per me, quello è stato e rimane il posto più magico del mondo.

foto: pinterest – raffaelemagrone.it – conflenti.italiani.it

filetto al pepe verde

Dopo l’ennesima risata di Marco al mio “cucino io”, ieri sera ho deciso di mettermi ai fornelli. All’inizio pensava che scherzassi poi, quando ho messo le scarpe per andare al supermercato, ha capito che facevo sul serio.

“Guarda che tu non sai cosa comprare” ha detto per demotivarmi. No, l’ha detto perché poi sarebbe stato lui la cavia. Elena Panciera però non demorde e quando si mette in testa una cosa, non gliela toglie nessuno. Così sono scesa al supermercato, quel luogo da me tanto odiato. Ho comprato gli ingredienti con perplessità: aveva ragione lui, io non sapevo minimamente cosa comprare. Ho vagliato quali ricette conoscevo a memoria e le uniche che mi son venute in mente sono state le mezze penne con una scatoletta di tonno e l’insalata verde pomodorini, olio e pepe.

No, mi son detta. Quelle non valgono. Dopo un tempo interminabile – ho cercato la panna per tre quarti d’ora – sono rientrata con la busta della spesa. La perplessità negli occhi di Marco voleva intimorirmi, ma mi son rimboccata le maniche e ho dichiarato che alle venti e trenta la cena sarebbe stata pronta.

“Hai preso qualcosa come piano b?” si è informato speranzoso.

“No”

“Molto bene” mi ha risposto, ha guardato fuori dalla finestra, non compresi il motivo, poi ho realizzato che ha cercato di capire se la pizzeria dall’altro lato della strada fosse aperta. Ho alzato il mento e ho voltato il viso, offesa. Adesso ti faccio vedere io, mi son detta.

La ricetta che ho scelto è molto semplice – dice lui – ed è veloce da preparare.

Filetto con il pepe verde.

Si lo so, avrei potuto scegliere qualcosa che non fosse carne, è difficilissimo toglierla dal fuoco con la cottura perfetta, tuttavia io son pur sempre quella che stava facendo una gara con il pizzaiolo.

Ho preso la carne di manzo, l’ho tagliata a fette alte un centimetro e mezzo – credo – e l’ho messa nella padella. Ho messo un po’ d’olio, sono andata ad occhio. L’occhio mio e quello di un cuoco non è lo stesso e l’ho notato. Infatti, dopo uno sguardo indagatore di Marco, ho capito che avrei dovuto metterne un po’ meno, ma gli ho detto che è meglio abbondare e non ha più parlato.

Ho buttato nel soffritto anche aglio ( uno spicchio, forse erano due) e granelli di pepe verde non macinato. Ho lasciato la carne sul fuoco, ogni tanto la giravo per non farla bruciare.

“Come la vuoi la carne?” ho chiesto come se conoscessi la differenza tra quella al sangue e quella a mezza cottura.

“Non bruciata” mi ha risposto. Gli ho lanciato uno sguardo con gli occhi a fessura. Si è versato un bicchiere di vino rosso e non ha più parlato.

Quando i miei occhi hanno deciso che era pronta, ho preso la carne con una pinza e l’ho adagiata su di un piatto. Si, è pronta, ho deciso mentalmente ma, come dicevo poco fa, io non conosco minimamente né i tempi di cottura né l’aspetto che può avere un pezzo di manzo cotto. Vabbè, poco male, mi concentro sul condimento, è quella la cosa importante (…)

Successivamente, ho pestato altri granelli di pepe – Marco mi ha detto che dovevo usare il mortaio, non ho voluto confessare di non avere la più pallida idea di cosa potesse essere un mortaio così ho dichiarato che preferisco farlo a mano che sa più di piatto autentico.

Ho aperto una scatoletta di panna e l’ho versata lentamente sulla pentola, lasciando andare il fuoco finché l’intruglio non si fosse addensato, aggiungendo il sale che fono a quel momento proprio non mi era venuto in mente. Ad occhio e croce, mi son detta, tre minuti potevano bastare anche se, dopo un minuto ha iniziato a bollire ed ho intuito che lasciarla li non era salutare.

“E’ pronto”

Come un uomo minacciato con un coltello, Marco ha deglutito e mi ha passato il piatto, sempre con lo sguardo perplesso. Non vorrei sbagliarmi, ma mi è sembrato di vedere sullo schermo del suo cellulare il numero di telefono della pizzeria.

Adesso vedrai, ti stupirò! Ho pensato tra me e me. Non ho sentito odore di bruciato, non ho visto incendi appiccati, non poteva che essere andata bene, la mia prima cena!

Marco si è versato il secondo bicchiere di vino e, una volta che il piatto gli fu posto sotto gli occhi, ha deglutito di nuovo. Sono certa che si volesse fare il segno della croce ma non l’ha fatto per evitare una lite.

Ha tagliato il primo pezzo di carne, l’ha infilzata con la forchetta e l’ha voltata per controllare la situazione, ha sospirato e ha buttato il pezzetto in bocca.

Voi ora vi state chiedendo com’era, vero? Lui dice che è stata una buona cena, tuttavia non so se, dopo cena, sia sceso per andare a prendere le sigarette o per mangiarsi la pizza che aveva precedentemente ordinato.

Mi sono talmente divertita che ho già scelto il prossimo piatto che gli preparerò: l’aragosta alla thermidor, non so cosa sia ma ne decanta spesso il buon sapore. Ovviamente Marco ancora non lo sa, gli farò una sorpresa, venerdì tornerà a casa dall’ufficio e troverà la cena pronta!

il cane di venezia

Lavoro a Venezia da quando ero bambina. Vengo da una famiglia umile dell’entroterra veneziano e, ogni giorno, mi reco in laguna per guadagnarmi la pagnotta. Ho iniziato da piccola, quando ancora i calzettoni mi arrivavano alle ginocchia e i pescatori portavano il pesce fresco direttamente al bancone del mercato. Venezia é una città magica ma questa è un’affermazione banale e scontata, quello di cui posso essere orgogliosa è il fatto di averla vissuta prima che diventasse una sorta di parco giochi. Negli anni sessanta non c’era la confusione che accompagna la città in questi tempi, all’epoca si poteva godere veramente di un turismo elegante e centellinato. Ora invece chi gira per le calli spesso lo fa senza un soldo in tasca e consuma il minimo, lasciando detriti ovunque. Potrebbero sembrare parole di disprezzo verso chi viene in visita, in realtà io amo i turisti che raggiungono il mondo sulle palafitte, ma vedere la mia città deturpata da gentaglia irriconoscente verso la sua magnificenza mi fa molto male. Ragazzi che si tuffano dai ponti, gente che passeggia in costume scambiandola per una spiaggia, flotte di persone che scendono dalle navi per andare ad inondare le calli, ferendo la terra più di quanto già lo faccia l’acqua alta. Io però con questi turisti ci campo e, volente o nolente, di loro ne ho bisogno. Lavoro in un negozio in Campo San Luca tra Rialto e San Marco.

Vendo salumi e leccornie di cui la gente non sa nemmeno pronunciare il nome ma, essendo a Venezia, le acquistano in gran quantità per portarle in Connecticut, Singapore o a Rio de Janeiro. Capita spesso che chi entra si guardi attorno, senza sapere cosa accaparrarsi e in quei casi mi prendo io l’incarico di dar loro il cibo migliore per far bella figura con amici che, molto probabilmente, non la vedranno mai. Sono qui gran parte della giornata, arrivo al mattino presto per sistemare per bene la mercanzia e chiudo la sera molto tardi, dopo i conti della giornata. Difficile stringere un rapporto con la clientela, la gran parte delle volte vedo una persona che nella vita poi non rivedo mai più.

Poche sono le signore di calle che vengono regolarmente, anche loro hanno la repulsione che ho io nel mischiarmi con chi non è del posto. Io sono veneziana di adozione perché, a guardare bene, abitare in provincia non è la stessa cosa, ma ho ricevuto il titolo perché, di fatto, in piccola parte, mantengo viva la città. I veneziani sono gente strana, forse non ricordano i tempi solenni, quelli in cui, nella serenissima le strade e le corti erano gonfie di commercianti e, gli unici turisti che c’erano, facevano parte delle classi nobiliari e qualche fortunato servitore che stava al loro cospetto. Ecco, sono entrati altri clienti. Mi rivolgo a loro con un sorriso e attendo di udire il loro accento prima di decidere in che lingua rivolgermi. Ho imparato l’inglese, il francese, un po’ di tedesco e lo spagnolo. Sono un’autodidatta, quand’ero giovane, a casa, non c’erano soldi nemmeno per il pane, figuriamoci per studiare. Sono le quattro di pomeriggio e, tra poco, sarà qui. Chi? Ora vi spiego. Sono esattamente dieci giorni che attorno alle cinque, compare un curioso cane. Si, uno di quelli con il pelo lungo, il dorso lungo e le zampe corte. Io non so distinguere un cane da un altro ma questo cane appartiene ad una razza bricconcella. Lui arriva, butta il muso dentro, fa un giro su se stesso e, quando si accorge che l’ho visto, si adagia vicino alla porta, sotto la serranda. Il primo giorno mi sono affacciata alla porta e ho buttato l’occhio sotto i porticati. Mi aspettavo di vedere il padrone arrivare, cosa che invece non accadde. Ma guarda te la gente, lascia in giro un cane incustodito, dove sarà finito il suo padrone? Pensai tra me e me. Sono tornata dietro al bancone e ho fatto finta di non vederlo più. Passò mezz’ora, poi un’altra e un’altra ancora. Il piccolo esserino peloso si era stazionato alla porta del mio negozio a mò di guardiano e li rimaneva, immobile, senza far accenno al desiderio di avere un pezzo di cibo che, con profumo invitante, attira uomini, bambini e animali.

Sì, animali, perché i gabbiani non si risparmiano visite nei pressi del mio negozio ma, prontamente, esco per spaventare quelle bestiacce dalle grandi ali e dal becco adunco. La lotta contro queste bestie risale a tempi addietro ma, invece di perdere forza, l’uccello ha cambiato sembianze, diventando sempre più grosso e più sfacciato, complice l’alta densità di umani che, se in un primo momento lo spaventavano, ora lo turba sempre meno. Il sole stava per giungere in mare ma quel cane curioso non dava cenno di allontanarsi dalla mia vista. Un gruppo di ragazzi è entrato e, nella confusione, lo persi di vista, presa dai conti e i resti da dare. Quando i giovani sono usciti, il cane non c’era più. Feci spallucce e tornai ai miei affari, a Venezia di cose strane se ne vedono tante, quella era una tra la miriade che quotidianamente vedo. Il giorno seguente, alla stessa ora, il piccolo tornò. Col suo naso bagnato e il pelo lucido ha infilato la testa nel mio negozio, compiuta la piroetta simile a quella del giorno precedente, si è seduto lì fuori, proprio sullo stesso punto. I pensieri mi si accavallavano veloci. Cosa può pensare la mia clientela se, di fronte ad un negozio di alimentari, torreggia un animale? Sporca igiene, pensai, presenza inappropriata. Un deterrente inconscio, temetti. Io non sono mai stata un’amante degli animali, anzi, sì, mi piacciono, ma il rapporto tra animale e uomo lo vedo esattamente com’è, un rapporto tra specie diverse. Non ho mai compreso chi aizza il ruolo dell’animale a quello di un figlio o un compagno, il cane è un cane, niente moine né vocine dolci. Un cane è un cane e l’uomo è l’uomo. Ho guardato l’orologio. Ore quattro e venti pomeridiane. La stessa ora di ieri. Mi asciugo le mani su di uno straccio, controllo se ci sono clienti in arrivo e, appurato di essere sola, esco e mi posiziono di fianco a lui, sotto la serranda.

“E tu chi sei?” gli chiesi come se lui avesse potuto togliermi i dubbi. La bestia in un primo momento fece finta di non vedermi ma vedevo che, con la coda dell’occhio, controllava i miei movimenti. Ah ma allora lo sai che sei in un posto dove non dovresti essere, pensai dentro di me.

“Dai sciò, vattene” dissi con voce grossa.

Il cane non si mosse. Nulla, era lì, fermo immobile a cercare di nascondere la sua presenza o, forse, ignorare la mia.

“tu qui non puoi stare” sentenziai e, con decisione, allungai un piede verso di lui, non per ferirlo, quello no, ma per spaventarlo. Il suo lato posteriore si alzò da terra, le sue zampe inferiori si spostarono di qualche centimetro, il giusto per riuscire ad attutire un possibile colpo, ma non se ne andò. Con l’arroganza di chi ti sfida in silenzio, mi fece capire che non solo non mi temeva, ma che sarebbe rimasto lì, discreto ma presente. Feci spallucce e me ne tornai ai miei affari. La fiumana di persone passava davanti alla mia piccola vetrina e, mi resi conto, prima guardavano quel buffo animale dalle zampe corte e poi buttavano l’occhio dentro al mio negozio. Sorrisi, carezze, pezzi di pane. Era un mendicante a quattro zampe che, zitto zitto quatto quatto si stava guadagnando la pagnotta di fronte alla mia proprietà. M’innervosii. Ma guarda te questo insolente, come si permette di stazionarsi li, proprio li, senza alcuna licenza? Se i gabbiani imparassero dalla sua discrezione, otterrebbero molto di più a meno fatica, pensai. Anche quel giorno il cane svanì nel nulla, proprio come era arrivato. Il terzo giorno fu un ripetersi del quarto e così via, giorno dopo giorno. Quel cane alle quattro di pomeriggio, come se a timbrare il cartellino fosse lui, arriva baldanzoso e fresco di spazzolata, si adagiava nel suo piccolo angolo di Venezia, preso in prestito senza chiedere.

Anche oggi guardo fuori di nuovo e, dal ponte, lo vedo arrivare, scodinzolante che quasi pareva una donna sculettante, sicura di avere addosso lo sguardo ammirato dei turisti. Non so spiegarvelo, ma la verità è che lo aspetto. Sì, è diventato parte del mio quotidiano e quell’appuntamento giornaliero oramai è diventata abitudine a cui dedico il pensiero durante la mattinata. Io non so da dove venga questo cane, ho provato a chiedere in giro, Rosetta dice che è il cane di un signore inglese che si è trasferito in laguna per trascorrere gli ultimi anni della sua vita nella nostra splendida e lenta città, ma credo sia una storia inventata come tante qui a Venezia. Sta di fatto che io, ogni giorno, godo di questa strana compagnia silenziosa alla quale non posso chiedere nessuna spiegazione. Forse è il cane di un uomo che nel pomeriggio va a trovare la sua dolce amante, forse è solo e abbandonato o, semplicemente, se ne scappa per un po’ da casa, si fa il suo giretto e se ne ritorna poi all’imbrunire ad adagiarsi sulla poltrona del suo padrone. Sì, lo ammetto, qualche pezzo di pane mi è sfuggito dalle mani, ma non ditemi che lo sto viziando no, non è così. Io sono una signora per bene, quando ho un ospite, gli offro sempre qualcosa, si tratta di educazione. Eccolo, si è seduto al suo posto. Che posso fare, cacciarlo è impossibile e non posso esporre lamentele ad ignoto padrone. Non mi resta che dargli una grattatina dietro l’orecchio, una sotto il muso, rientrare in negozio e tornare al mio lavoro. In fondo, siamo due abitudinari che hanno accettato la propria vita così, in un susseguirsi di gesti consueti che ci rassicurano, tutti i giorni. Dietro al bancone lo guardo e sorrido tra me e me. Sembra abbia sentito i miei pensieri perché si volta, mi guarda e poi torna a fissare l’acqua che scorre tra le terre quasi sommerse della città più bella del mondo.