le poltrone

I paeselli di provincia sono sempre stati piccoli mondi a parte. Un campanile, una chiesa, una piazza. Nel microcosmo vivono poche anime, tutte concentrate in quelle quattro strade. Sono nata anch’io in uno di questi e, sebbene la mia vita abbia poi preso una strada diversa, ho vissuto gran parte dei miei anni in una piccola realtà. Il droghiere, la macelleria, il giornalaio. Conoscevo tutti e tutti conoscevano me.

Trissino è adagiato sul dorso di una collina, e per una buona parte si arrampica lungo di essa: case che sfilano ai lati di una salita che porta alla parte alta, nella quale si erge la chiesa più vecchia, il cimitero e la villa del conte Marzotto.

Giù, in paese, c’era un edificio di proprietà del clero, il cinema. Nella sala, ragazzini e adulti si recavano per vedere i film appena usciti. Fin dagli anni cinquanta, orde di ragazzini son passati su quelle sedie, si son seduti ed hanno guardato pellicole indimenticabili. Io stessa, da piccola, passavo ore a guardare i film proiettati sullo schermo del cinema. L’odore dell’edificio sapeva di umido e di legno, le poltrone si aprivano e chiudevano come grandi fauci feline e, ogni qualvolta ci si alzava o ci si spostava, quelle bocche si chiudevano minacciose. Ci ho pianto, riso, mi sono commossa su quei sedili rosso fiammanti e, nonostante la loro dubbia comodità, sono un ricordo d’infanzia da cui non sono mai riuscita a distogliere il pensiero.

foto mbnews

Cinque anni fa, lontana dal paesello, sono venuta a conoscenza della terribile notizia: il cinema sarebbe stato raso al suolo. Erano ormai anni che le fatiscenti porte non venivano varcate; sedie, bagno e palco non vedevano occhi umani da parecchio tempo; artisti e aspiranti tali non calcavano il palcoscenico da diversi lustri, tuttavia saper che ben preso il suo posto sarebbe stato occupato da una nuova area commerciale mi ha lasciato un amaro senso di desolazione.

Quando iniziarono i lavori, venni a conoscenza della vendita di oggetti stipati all’interno della sala così, con il passaparola tipicamente provinciale, presi appuntamento con il custode per andare a visionare i cimeli stipati là dentro.

Varcai il portone con nostalgia. Le misure delle porte mi sembravano ristrette, sebbene si sa, quando si è piccoli, tutto pare più grande. I vetri della biglietteria al lato dell’ingresso erano opachi di polvere e la scala che portava alla galleria presagiva un difficile percorso poco sicuro. I tendoni, rosso carminio, erano mutati in un tessuto rovinato, male odorante, strappato in più lembi. Mi sembrava che anche la mia vita avesse subìto lo stesso mutamento e che lo splendore dei momenti passati non era che un triste ricordo.

Il custode ci fece strada e, le poltrone, sistemate tutte in un angolo buio, parevano animali pronti al macello. La polvere non aveva risparmiato nemmeno loro e il materiale che le sosteneva si era arrugginito e scrostato.

“Venite” ci disse l’uomo “venite che vi faccio vedere la sala principale”

Varcai il portone e, in un attimo, mi ritrovai in quello che di fatto era diventato l’edificio: un grosso deposito di mobili, libri e suppellettili di varia natura. Ci spiegò che molte case di paese erano state sgomberare dal mobilio e che, non sapendo dove metterle, il parroco aveva deciso di stivarli lì per comodità.

“Vi lascio guardare, se volete prendere qualcosa, ditemelo che se ve lo portate via ci fate pure un favore”

M’inoltrai tra i sentieri che si erano creati all’interno del cinema. Come in un labirinto, cercavo curiosa qualcosa da portarmi a casa. Decisi di infilare nel furgoncino un vecchio specchio di legno con i riccioli alle estremità. Nella casa nuova mi mancava qualcosa che riflettesse la mia immagine ma, fino a quel momento, non ne avevo sentito la necessità.

“Prendo questo” dichiarai con convinzione. Appoggiai poi le mani su di una poltrona ma il tessuto era troppo logoro per pensare di passarci le serate a leggere un libro. L’uomo si è caricato in spalla il grande specchio, contento che si sarebbe liberato un po’ di spazio. Uscendo, ho buttato nuovamente lo sguardo sulle poltrone e, in quel momento, decisi di portarmi a casa un pezzo della mia infanzia.

“Porto via anche un paio di poltroncine” dichiarai solennemente. Il custode mi regalò un sorriso. In fondo, credo abbia letto la malinconia nel mio sguardo.

“Quali vuole? “

Camminai tra le poltrone che, a guardarle, parevano tutte uguali. Mi chiesi su quali ancora non mi fossi seduta e quale di esse invece era quella in cui avevo mangiato le patatine, trent’anni prima. Indicai con la mano le prescelte, le caricammo nel piccolo furgoncino e salutai, grata dell’ultimo saluto che mi aveva concesso di dare a quel luogo.

foto foursquare

Prima di tornare a casa, passai da mia madre. Scese le scale e mi chiese se potessi farle vedere il bottino. Aprii il portellone del furgoncino e gliele mostrai. Lo sguardo di mia madre s’intristì. Non dicemmo nulla ma entrambe stavamo piangendo la fine di un pezzo della nostra vita.

Marco ed io portammo poi il bottino in casa e, per qualche tempo, lasciammo le poltrone in una stanza finché non avremmo fatto il lavoro di restauro.

I giorni passavano, passavano le settimane, i mesi, gli anni e quelle due poltroncine non venivano spostate. Erano andate dimenticate, proprio come accadde nel vecchio cinema di paese. La scorsa primavera passai di fianco a quel cimelio e mi inginocchiai a terra, per guardarle. Dedicai loro lo stesso pensiero di qualche anno prima. Siete la mia infanzia, siete lì, addossate ad un muro lontane da dove avete servito centinaia di trissinesi, dimenticate e in disuso.

Con l’arrivo del regalo del mio compleanno, il loro destino è cambiato nuovamente. Il posto da loro occupato mi sarebbe servito per un vecchio armadio, anche lui appartenuto ad altre vite che, con l’occasione della ricorrenza, Marco decise di regalarmi.

“Dobbiamo far sparire quelle due là” sentenziò con decisione. Aveva ragione, occupavano spazio inutilmente, così le abbiamo caricate di peso e portate nello scantinato, chiuse a chiave nel buio e dimenticate ancora una volta. Passò l’estate e anche l’autunno e non ci pensai più.

foto clrapulaclub

Il cinque di dicembre seguente a Vicenza c’è stata un’alluvione. Il caldo inusuale di quei giorni, ha fatto sciogliere le nevi in montagna e, i ghiacci, trasformati in acqua, sono scesi a valle assieme a detriti, fango e rame di piante sradicare. Siamo scesi a controllare i danni e, fermi alla bocca delle scale, abbiamo guardato giù. Lo scantinato era allagato e, con esso, tutti gli oggetti in esso stipati si stavano rovinando. Solo qualche giorno dopo siamo riusciti ad accedere al locale e, aperta la porta che ci conduceva ai nostri averi, abbiamo guardato nuovamente le due poltrone, rovinate ancor di più.

Sono tornata in casa, silenziosa. La triste storia delle poltrone non aveva fine, bistrattate prima, umiliate poi. Il loro destino era ormai segnato per sempre e, nel turbinio dei miei pensieri, mi chiesi se succede sempre così. Si finisce inesorabilmente a diventare qualcosa di inutile. Che tu sia un oggetto oppure un essere umano, quella è la fine che ti spetta. Non riuscivo a darmi pace finché non decisi di scendere giù, a verificare se i danni fossero davvero irreparabili.

Non ho ancora deciso cosa fare di loro due, sono ancora laggiù, da sole, ad attendere di accogliere umani a cui dare ristoro. Potrei portarle in discarica anche oggi, ma c’è una piccola voce che mi sale dal cuore che mi sussurra di aspettare e che, sebbene sia oramai impossibile farle risplendere, il momento di buttarle non è ancora arrivato. Penso che le terrò ancora con me, almeno per ora. Non sono ancora pronta a separarmi dalla mia infanzia, dal profumo del cinema e il ricordo dei tempi passati.

Lascia un commento